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Ti amo da vivere

editore Laterza

“Gallo farcito”

Lui, Rocco, il capofamiglia, è un uomo enorme.  Baffi reali, testa grossa con pochi capelli neri ed una pelle scura gualcita forata da due occhi autoritari lontani un abisso dalla montagna pelosa dello stomaco.

La moglie Rita si nasconde spesso nel suo abitino a fiori rosa fino a scomparirne dentro, non prima di aver lanciato languidi sguardi di sottomissione alla montagna totalitaria.

Nell’ordine siedono a tavola a testa bassa Luigi, Franchino, Angela e Maria, i quattro figli che la Provvidenza ha voluto mandare.

Al piano di sotto vive Assunta, la mamma gigante di Rocco. La nonna possente di Luigi, Franchino, Angela e Maria. La suocera insopportabile di Rita.

Sant’Innocenzo è il patrono del paese.

Un Santo amato da tutti e da sempre. La sua statua conservata all’interno della Chiesa Madre San Giovanni Battista è ormai priva dei piedi. Il Parroco, da tempo, sta cercando un falegname che possa ricostruirne le falangi. Finalmente i fedeli potranno di nuovo omaggiarne le dita e baciarne le unghie riverniciate.

La festa di Sant’Innocenzo è attesa ogni anno con la stessa intensità e con la stessa commozione che i Grassanesi ripongono nella ricorrenza del Santo Natale o della Pasqua di Resurrezione.

Le prove della banda si svolgono in campagna, fuori dell’abitato. La sorpresa è garantita.

Nel centro dell’abitato, invece, da circa una settimana si agitano strani forestieri giunti con camion e furgoncini carichi fino all’inverosimile. Assi di legno, lampadine, cavi elettrici in un frastuono assordante sono installati dagli uomini ragno appesi con funi sui pali azzurri allineati lungo il Corso e stabilizzati con cavi di acciaio ancorati ai muri delle case.

Festoni in legno colorato contenenti migliaia di lampadine vengono avvitati ai pali allineati e poco a poco si ergono artefici di spettacolari prospettive che sembrano allungare a dismisura i marciapiedi del Corso.

Sul fondo, in posizione dominante, si erge la grande Cassa Armonica. Una struttura architettonica ardita che accoglierà la banda sfavillante di luci nei momenti di massima esaltazione della festa.

La Chiesa Madre, con il portone socchiuso, è deserta.

Non è ancora giunto il suo momento; la statua giace in piedi nella penombra, sulla sua base in legno verniciato nella quale due grossi buchi quadrati attendono con sgomento il sussulto blasfemo delle verge di castagno che la oltrepasseranno per essere poi sollevata e impugnata da mani agitate.

Barcollerà ondeggiando con lo sguardo fisso verso l’uscita della Chiesa. Avanzerà sulle teste dei fedeli; come un automa, Sant’Innocenzo vedrà la luce della piazza; un coro di inni lo accoglierà gratificandolo con il lancio di fiori.

Sotto le verghe di castagno, gli uomini stringeranno i pugni, punteranno i piedi con le ginocchia spezzate e bagneranno le pietre con gocce crescenti di santo sudore.

Nella casa di Rocco, la tenera Rita stava completando i preparativi di una lunga settimana.

Aveva già acquistato dalla comare Sangiovanni il Gallo più bello che aveva nell’aia. Sono confinanti di terra e tra confinanti di terra, se non si arriva agli omicidi, si stringono patti di parentela che durano un’intera esistenza.

Rita aveva già acquistato tutti gli ingredienti per la farcitura: macinato di vitello, uova, prezzemolo, rete di maiale, noce moscata, cipolle, sedani, carote, aglio e olio d’oliva. Non si poteva festeggiare il Santo Patrono senza il rito del Gallo Farcito.

Ed ecco che lì, nella cucina ordinata di Rita, racchiuso in un prezioso tabernacolo di coccio rosso e protetto da una cupola sagomata con pennacchio, il Gallo giaceva supino e semi sommerso nella sua dorata linfa propiziatoria.

Avevano tutti preso posto con impaziente allegria attorno al tavolo da pranzo circolare. Solo Rita e la nonna Assunta si attardavano altrove.

Alla fine anche Rita emerse raggiante dalla cucina serrando tra le mani il prezioso sarcofago.

Lo depose con fatica al centro della tavola e Rocco prese immediatamente ad annodarsi il tovagliolo candido stringendolo sul suo collo tormentato. I figli fecero altrettanto.

Rita si sedette dopo aver scoperchiato il canopo del Gallo e, tutti, rimasero in attesa della esuberante nonna Assunta i cui passi pesanti già si percepivano lungo le scale.

Assunta fece il suo ingresso trionfale nella camera da pranzo salutata con un sorriso forzato dai nipoti. Scostò la sedia e con pesantezza occupò il suo posto vuoto.

A nessuno sfuggi l’immediata espressione degli occhi della nonna.

Dopo un’occhiata rapidissima al centro della tavola, a testa bassa iniziò a roteare lo sguardo colpendo con fulmini satanici tutti coloro che passava in rassegna. Infine dal centro della tavola diresse lentamente lo sguardo verso Rita, la trafisse socchiudendo leggermente le palpebre e strizzando gli occhi affinché quella energia giungesse più dirompente che mai verso lo sguardo spaventato della nuora.

Con voce bassa e scandendo le parole in dialetto si rivolse a lei: “O sape che juorno iè oggi?” – Rita, quasi atterrita da tanta determinazione, si strinse nelle spalle, guardò più volte i figli e il marito, tornò sullo sguardo interrogativo della suocera e forzando un sorriso innocente rispose: “Eeee…nonna….èèèèè….Sant’Innocenzo” – “NO!” –gridò questa volta la suocera con voce più determinata –“NO!!!” – e aggiunse: -“Nunne sape che juorno iè oggi?” – Rita di nuovo nascondendo il collo nelle scapole ruotò in alto le palme delle mani in segno di innocenza, guardò prima il marito Rocco, poi tornò sugli occhi infuocati di Assunta e ripeté: “Maaa…nonna….oggi è…la festa di Sant’Innocenzo, no?”. La vecchia alzò ancora il tono della voce e immediatamente pose fine agli imbarazzi di tutti aggiungendo: -“No! Rita…..oggi…iè VENERDI !!!!” e spinse sull’accento tuonando come un temporale.

Seguì un silenzio metafisico.

La festa di Sant’Innocenzo era capitata di venerdì.

Rocco e i figli con i tovaglioli legati al collo assestavano con imbarazzo bicchieri e posate, Rita guardava fissa il suo piatto vuoto preparandosi ad una dura penitenza da scontare in confessionale e nonna Assunta con le braccia allungate sulla tavola passava in rassegna in silenzio gli occhi tutti.

Lentamente, concluse le perlustrazioni, soffermò il suo sguardo al centro del tavolo dove giaceva il Gallo farcito.

Poi calmatasi alquanto, guardando Rita riprese: -“Oggi iè venerdì….u’ vui mangià tu u’ gallo?” – Rita non sapendo dove puntare i suoi occhi cominciò a guardarsi intorno smarrita, sollevò la spalla destra accostandovi la guancia e farfugliò alla suocera: “Nnnn…no…Assunta, ie…ie non lo vorrei…u’ facette pe’ vuie, nnn…no…ie non lo mangio”.

La nonna Assunta scostò il suo piatto, incrociò le braccia appoggiando i gomiti sulla tovaglia e, guardando i nipoti, a turno domandò: “E tu Luigi…u’ vui mangià u’ gallo?…e vuie Franchino, Angela e Maria u’ vulite mangià u’ gallo? Eh? U vulite mangià u’ gallo?”

I ragazzi, colti di sorpresa, si consultarono guardandosi negli occhi prima di rilasciare una risposta che li avrebbe condannati alla pena di morte.

Si scambiarono espressioni innocenti temendo di non cogliere i tanti messaggi di solidarietà che trasparivano dalle loro espressioni.

Esordì Luigi, il primogenito: -“Nooo…Nonna…io…io non lo voglio il gallo, eccooo…non…mi piace molto”-. Rotto il ghiaccio, subito Franchino, Angela e Maria si affrettarono a giustificarsi che neanche loro avrebbero mangiato il Gallo, che a Maria proprio non piaceva e che in definitiva loro non avevano fame. Seguirono alcuni minuti di silenzio. La nonna Assunta guardava altrove, tutti gli altri si esaminavano con attenzione cercando di interpretare l’espressione degli occhi o le piccole smorfie che emergevano dalle loro bocche, subito ricomposte prima che lo sguardo severo di nonna Assunta potesse coglierle.

Rocco, che era rimasto a lungo in silenzio, fortemente scosso dal processo che si svolgeva sotto i suoi occhi, prese con determinazione la parola e, rivolto a Franchino: -“Passami a pentola cu’ u’ Gallo”-. Franchino osservò il padre con occhi spalancati, poi ad un secondo, deciso cenno di costui accompagnato dalle grosse mani protese in avanti, si alzò dalla sedia, sollevò il contenitore del Gallo prelibato e lo porse al padre. Rocco assestò la pesante marmitta al centro davanti alla sua sedia. Ordinò meglio il tovagliolo per coprire la pancia prominente, impugnò due armi affilate e iniziò le operazioni di taglio.

Poco a poco il Gallo farcito scomparve nelle sue viscere seguito con voluttà dagli occhi avidi dei familiari che, ormai compromessi, avevano dichiarato apertamente le loro intenzioni di rispettare il precetto.

“La macchina nell’oceano”

Avevo organizzato una grande festa mandando inviti ad amici e conoscenti.
Avevo noleggiato una nave poiché la festa si sarebbe svolta in un’isola.
Non ricordo che isola fosse; certo era molto lontana e quel pomeriggio una lunga fila di auto era incolonnata lungo la banchina del porto in attesa dell’imbarco sulla nave.

Salutai gli amici, uno ad uno, li accompagnai al cancello di imbarco. Arrivato il mio turno, imboccai la rampa in acciaio per entrare nella grande poppa e mi trovai all’interno di un immenso salone con i pavimenti di plastica lucida rossa sulla quale le gomme dell’auto producevano stridenti cigolii.
Le rampe rosse si diramavano in tanti piani sovrapposti sui quali le auto salivano lentamente rispettando le distanze di sicurezza, sempre più in alto fino all’ultimo ponte, forse fino al cielo.
Attraversando con l’auto la grande sala di ingresso, vidi alla mia destra alcuni amici che si accingevano ad entrare nella loro cabina con gli effetti personali
Fermai l’auto poco più avanti in modo che non fosse di intralcio alla coda che seguiva ed entrai nella cabina.
Marco, come mi vide, si rifugiò di corsa nel bagno; poi entrarono Giulia ed altri ancora con i quali, seduti sui letti, ci mettemmo a parlare.

La nave aveva ritirato le ancore producendo una lunga vibrazione sorda ed era salpata verso l’oceano aperto.
Si era fatto tardi nella cabina con gli amici; era necessario parcheggiare la macchina e prendere posto nella cabina che mi era stata assegnata.
Uscii dalla cabina e tra le scale che si intrecciavano davanti ai miei occhi e le insegne che indicavano i livelli dei ponti sopra e sotto di me, persi completamente l’orientamento e non seppi ritrovare il luogo dove avevo parcheggiato momentaneamente la macchina.
Girai tutta la nave da prua a poppa alla ricerca di un segnale, di un simbolo di riconoscimento finché, stremato, pensai di scendere al livello più basso, quello riservato alle autorimesse.
Lì mi avrebbero potuto aiutare.
Scesi una scala in ferro verniciata di bianco che terminava contro due porte di cristallo satinato.
Premetti una delle due ante che con uno schiocco si aprì; subito due uomini di colore si affrettarono a richiudere le porte contro il mio viso sostenendo che durante la navigazione era tassativamente proibito entrare nelle autorimesse.
Spiegai loro che chiedevo solo informazioni, bussai violentemente con le palme delle mani contro i vetri vibranti, urlai che volevo parlare con un responsabile, che avevo bisogno di aiuto… D’un tratto la porta a vetri si schiuse dolcemente verso di me e dietro apparve un uomo con pochi capelli e lo sguardo bonario.
<> mi chiese
<> risposi
ed aggiunsi:<>
-<> mi chiese sorpreso
<<Si, certo sono io, ma è indispensabile che io ritrovi la mia macchina poiché all’interno ho lasciato tutte le mie valige, i documenti e gli oggetti personali>>
<> mi disse avvicinandosi con gli occhi dolci <<Dovrò darle una notizia un po’ forte>>.
<>
<>…
<>

Mi vennero le lacrime agli occhi e sentii un nodo alla gola che mi impedì di rispondere all’uomo. Feci tuttavia cenno di andare, volevo vedere le balene e soprattutto la mia auto.
Prendemmo una canoa.
Eravamo in quattro, due alle pagaie. Ci dirigemmo verso una piccola lingua di terra.
Scendemmo lungo un torrente che aveva pochissima acqua ed un fondo di rocce verdi levigate.
Lo scafo della canoa scivolava più sulle rocce del fondo che sull’acqua e si infilava zigzagando all’interno di una boscaglia bassa formata da cespugli fitti di foglie rosse e verdi con sprazzi violenti di muschi fosforescenti come quelli delle tundre islandesi.
D’improvviso esplose il suono di un’orchestra, mi parve la passione di Bach, il torrente finiva poco prima di una lunga scogliera nera che si stagliava minacciosa contro un cielo bianco.
In bilico sulle creste aguzze stava l’auto con il viso rivolto all’oceano.
In basso, immerse in un turbine di spruzzi bianchi tra le creste agitate di onde cobalto, le balene.
<> -mi sussurrò l’uomo- << una persona, uno scoglio, un’auto con gli occhi brillanti, non si allontanano più da esso se non dopo il ciclo completo di una stagione. Tutti i loro incontri di amore sono vissuti di fronte all’oggetto dal quale hanno subito il fascino>>. <>-continuò sussurrando l’uomo, << le ha ipnotizzate. Ecco vede? Si trovano tutte lì, di fronte alla scogliera a picco sull’oceano in cima alla quale galleggia la sua auto. Loro vedono solo il frontale dell’auto, con le mascherine cromate e gli occhi a mandorla. Si raggruppano infinite, provenendo dai mari più lontani e si concentrano davanti alla macchina, la Dea protettrice, il miracolo del Totem tecnologico. Lì si svolgono i loro incontri di amore in un tripudio di vapori e spruzzi colorati; le più giovani si esibiscono in esercizi di virtuosismo rimanendo diritte verticali a mezz’acqua. Terminerà tutto alla fine della stagione, quando le balene lasceranno questi fondali per tornarsene nei mari freddi del nord>>-
Attesi, accampato alla meglio in una capanna di legno, la fine della stagione.
I miei amici a bordo della nave, forse, stavano facendo ritorno; o forse quella crociera era già terminata da tempo e ciascuno di loro era rientrato nella propria casa. Nessuno chiese di me.
Era normale che io fossi sparito, scivolato lungo i bordi salati della nave, dato ormai per disperso tra le onde dell’oceano e raccolto da una canoa di passaggio.
Avevano ripreso le loro attività dietro le scrivanie, affogati nelle poltrone con le ruote a cinque razze. Il telefono era insopportabile; troppo violento l’impatto fisico per il cervello che ancora si cullava sulle onde dell’oceano.

Rimasi immobile ad osservare le danze delle balene. La mia macchina sembrava gioire ogni qualvolta emergeva dalla schiuma che l’aveva ricoperta.
Fu difficile superare a piedi nudi le profonde fenditure dello scoglio nascoste da filamenti strapazzati di alghe grigie, ma alla fine la raggiunsi.
Entrai dolcemente e mi sedetti al posto di guida.
Era bello, finalmente, godersi lo spettacolo dall’interno della mia auto. I vetri si imbrattavano d’improvviso di schiuma candida che colava scivolosa lungo le borchie cromate. I forti impatti di acqua verde scuotevano l’auto, la sollevavano facendola galleggiare per qualche istante e la adagiavano nuovamente su qualche altra piccola asperità del fondale.
Le balene impazienti scorrevano con i loro occhi oblunghi al di fuori dei finestrini; potevo vedere le incisioni profonde della loro corteccia epidermica che filavano con grazia esemplare scomparendo nel verde cupo dell’orizzonte subacqueo.

Al contatto ripetuto con le bordate di acqua salata la scocca dell’auto si sciolse.
Qualche piccolo frammento di colore indugiò nella massa degli scogli per brevi attimi, prima di essere inghiottito dalla liquidità densa del fondo.
Scivolai giù dalla roccia su un materasso di panna salata. Immerso in un verde opaco fui accolto da bolle trasparenti agitate da una corrente frenetica.
Feci molta attenzione a proteggere le mie pinne e la mia grande coda per non lacerarle contro gli scogli.

Una corrente benevola mi allontanò da quei vortici pericolosi e mi sospinse verso il largo, verso fondali nuovi colorati come il cielo.
Nuotammo a lungo, insieme, solcando la superficie imbiancata delle onde.

“Hai visto mai!!!”

Nel ristorante panoramico di Grassano, il can-dido gazebo offre un riparo indispensabile alla torrida calura estiva.
L’ampia vallata che si estende a Sud, scioglie i suoi umori nell’alveo scintillante di un Basento Pigro.
Il Basento. Antico fiume di Lucania dove la bella Abufina, cavalcando un puledro bianco per raggiungere il suo amante Selepino, trovò la morte distratta dalle pietre scintillanti nell’acqua che fecero impennare il cavallo scaraventandolo al suolo.
Il titolare, elegante, con baffetti neri orizzontali e cravattino nero a farfalla, sull’attenti al lato della nostra tavola, proponeva con visibile orgoglio i suoi variegati antipasti di mare.
Alla mia destra sedeva Maria Cristina, di fronte avevo Giovanna, seguivano Franchetto e Rocco.
Tutti e cinque d’accordo sulla scelta dei piatti che non tardarono ad essere serviti.
Piovvero dall’alto i piatti da portata con quadrotti di tonno arricchiti da patate ed erbette di campo, seguiti da cozze fritte con farina di legumi e cereali. Immancabili alici fritte alla lucana con aceto, aglio, menta e peperoncino.
In ultimo fece il suo ingresso trionfale l’insalata di polpo con pomodori e peperoni gialli e rossi.
Seguendo la discesa dell’insalata di polpo, l’occhio libidinoso mi cadde all’interno dell’ampio decolleté di Maria Cristina.
Tra peperoni rossi e gialli, indugiai qualche istante nella difficile esplorazione finché notai, nel fondo oscuro della camicetta, una piccolissima sagoma rossa.
Per garbo non potei temporeggiare più a lungo. Rivolsi lo sguardo sulle cozze fritte e con spavalderia chiesi a Maria Cristina cosa mai nascondesse nella sua intimità.
Con serena accondiscendenza infilò una mano nel colletto sbottonato ed estrasse una collanina in metallo al fondo della quale era appeso un piccolissimo cornetto rosso.
– “Carino!” Esclamai
– “Lo porto sempre con me” – aggiunse
– “Dal giorno in cui lo ricevetti in regalo dalla mia mamma”
Mi sembrava tutto normale. Una donna porta le collanine. Alle collanine appende medagliette, pietre, ciondolini e perché no, anche un cornetto rosso.
Giovanna, che aveva appena sfidato i quadrotti di tonno, si inserì nella nostra conversazione:
– “Vedete? Anche io ho il mio portafortuna”
Stirò il braccio destro per scoprire il polso e mise in risalto un elegante bracciale in argento. Lo allungò verso il mio sguardo e con le dita della mano sinistra sollevò il piccolo cornetto rosso che era appeso nel fondo.
– “Non lo tolgo mai” – disse con un sorriso bonario.
– “Entra con me anche nella doccia” – e continuò:
– “Questo oggetto bisogna sempre portarlo al seguito e non bisogna mai comperarlo”
Attirando ormai l’attenzione degli altri commensali sull’oggetto misterioso aggiunse alcune spiegazioni:
– “Per proteggerti dalla sfortuna ti deve essere regalato da una persona che ti vuole bene e, a tua volta, potrai farne un regalo a qualcuno che merita di essere protetto”
Conoscevo naturalmente il significato scaramantico dei famosi cornetti rossi, ma non sospettavo che entrambe le mie commensali ne possedessero uno. Tradizioni antichissime testimoniano pronostici di buon auspicio attribuiti al simbolo del corno. Non soltanto legati alla sua forma fallica che lo ergeva ad emblema di virilità e fertilità, ma anche agli aspetti primordiali del coraggio e della forza animale che veniva sprigionata dalle grandi corna incastonate nel cranio.
Infatti tra i misteri racchiusi all’interno del Parco Letterario Carlo Levi di Aliano nella provincia di Matera, emerge quello delle maschere cornute.
Le notti del carnevale vengono animate da un frastuono di figure nelle quali l’aspetto zoomorfo prevale su quello antropomorfo. Esso viene esaltato non solo dalle folte chiome policrome di carta pesta e penne, ma soprattutto dalla presenza costante di lunghe corna appuntite e da una sorta di proboscidi mozzate emergenti come grugni dalle facce colorate.
La più grande sciagura per un pastore era vedersi il gregge sbranato dai lupi.
Nasceva dunque istintivamente il bisogno di esorcizzare tale sciagura attraverso l’assunzione di sembianze bestiali indossando corna e campanacci che portassero alla morte del mostro. La sua disfatta assorbiva ed annullava tutti i mali e le energie negative degli spiriti malvagi.
Ad un certo punto Rocco dal capo della tavola inclinò il busto sulla sinistra, infilò una mano
nella tasca destra dei pantaloni ed estrasse il mazzo di chiavi della sua macchina. Poi, mostrandolo a tutti con espressione candida e naturale esclamò:
– “Ma anch’io lo porto sempre qui appeso”
Il cornetto fiammante con coroncina d’oro, si agitava appeso al mazzo delle chiavi di Rocco, sorpreso per tanta gradita attenzione.
Non potei aggiungere altro se non mostrare la mia espressione di meraviglia. Mai avrei potuto chiedere ulteriori spiegazioni semplicemente perché intorno a quel tavolo non vi era proprio nulla da spiegare. Tutto era naturale e tutto rientrava misteriosamente negli algoritmi dell’universo lucano.
D’istinto volsi lo sguardo verso Franchetto che era rimasto in silenzio ad assaporarsi la scena.
Aveva assunto costui un’aria sorniona che certamente era foriera di qualche altro colpo di fulmine.
Mi osservò beffardo e anche lui mi porse sotto gli occhi il suo braccio sinistro sorvolando il piatto con le alici fritte.
Al cinturino del suo orologio pendeva smagliante nel suo lucido colore rosso, il cornetto contro il malocchio. Dovetti rassegnarmi ai numeri della statistica.
Su cinque persone presenti, quattro lucani risultavano protetti dalla Sfortuna, dal Malocchio, dalla Sventura e dalla Malasorte. Risultavo dunque il solo e l’unico esposto a tali rischi poiché non possedevo il cornetto rosso. Pensai subito a quella frase famosa di Eduardo De Filippo: – “Essere superstiziosi è da ignoranti, ma non esserlo porta male” Mi rivolsi dunque a Franchetto: – “Ma veramente voi credete a queste cazzate?” – La risposta fu pensata per qualche istante. Franco intercettò con lo sguardo gli occhi dei quattro commensali per ottenere una sorta di autorizzazione ad interpretare i loro pensieri, poi esclamò: – “No! Veramente noi non ci crediamo molto, però… HAI VISTO MAI!!!

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